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Doppia imposizione sugli atti giudiziari: quando l’Agenzia delle Entrate forza la mano

di Giorgio Marchetti


C’è un principio cardine del nostro ordinamento tributario che dovrebbe essere sempre rispettato: il divieto di doppia imposizione, cioè l’impossibilità per l’Amministrazione finanziaria di colpire due volte, con la stessa imposta, un medesimo presupposto. Eppure, vi sono casi in cui questo principio viene disatteso proprio da chi dovrebbe garantirlo.

Infatti accade spesso che l'Agenzia delle Entrate imponga il pagamento duplicato dell’imposta di registro (400 euro anziché 200) sul medesimo decreto ingiuntivo.


Nel panorama delle imposte indirette, una delle distorsioni più insidiose (e meno conosciute) è quella della doppia imposizione derivante dalla pretesa esistenza di un “atto enunciato” all’interno di un provvedimento giudiziario. Si tratta di una prassi che l’Agenzia delle Entrate continua a praticare, nonostante la normativa e la giurisprudenza ne abbiano delineato con chiarezza i limiti.

Un caso emblematico è oggetto di un recente ricorso tributario presentato alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Ancona, in cui l’Ufficio ha raddoppiato l’importo dell’imposta di registro dovuta per la registrazione di un decreto ingiuntivo, adducendo l’esistenza di un atto “enunciato” nel testo del provvedimento.


Cosa si intende per “atto enunciato”?

L’art. 22 del D.P.R. 131/1986 stabilisce che se un atto (scritto o verbale, non registrato) viene espressamente richiamato in un altro atto soggetto a registrazione, tra le stesse parti, allora anche l’atto enunciato è soggetto a imposta. Ma l’enunciazione non può essere presunta o desunta indirettamente: deve essere esplicita, chiara e completa, tanto da consentire la registrazione autonoma dell’atto richiamato.

Come ha affermato la Corte di Cassazione (tra le altre, Ord. n. 11757/2024 e n. 2294/2024), è necessario che il riferimento contenga tutti gli elementi essenziali dell’atto enunciato — soggetti, oggetto, natura del negozio, contenuto — e non si limiti a richiami generici o a una semplice ricostruzione storica del rapporto.


Il caso concreto: una duplicazione illegittima

Nel caso trattato, l’Agenzia ha ritenuto che un decreto ingiuntivo contenesse l’enunciazione di un contratto verbale tra un professionista e il cliente, relativo a prestazioni legali. Di conseguenza, ha raddoppiato l’imposta di registro applicando anche quella prevista per gli atti enunciati.

Tuttavia, il decreto ingiuntivo non contiene alcun riferimento formale o completo a un contratto autonomamente identificabile. Si limita a menzionare prestazioni professionali e il riconoscimento di un debito da parte del cliente. Elementi insufficienti a integrare gli estremi dell’enunciazione, come chiarito anche dal Consiglio Nazionale del Notariato (Studio n. 208/2010T): non basta evocare l’esistenza di un rapporto giuridico, serve la rappresentazione piena dell’atto in tutti i suoi elementi identificativi.

In sostanza, l’Amministrazione ha applicato una seconda imposizione sulla base di un atto giuridicamente inesistente sotto il profilo registrale, finendo per colpire due volte lo stesso fatto: il decreto ingiuntivo.


Un problema sistemico, non episodico

Questa prassi non è isolata. Chi scrive aveva già affrontato un caso analogo in passato, relativo al un proprio cliente il quale aveva ricevuto un avviso analogo, poi annullato in autotutela dall’Agenzia stessa. Ciò dimostra che non si tratta di un errore occasionale, ma di una modalità operativa ricorrente, che può colpire chiunque si trovi a registrare atti giudiziari contenenti riferimenti – anche vaghi – a rapporti pregressi.

Il rischio è che questa lettura estensiva dell’art. 22, in violazione del principio di legalità dell’imposizione, si traduca in un onere fiscale indebito a carico del cittadino, spesso poco incline o poco attrezzato a difendersi nei confronti dell’Amministrazione.


La necessità di un intervento chiarificatore

La vicenda mostra con evidenza quanto sia importante vigilare sull’operato dell’Agenzia delle Entrate, specie quando interpreta le norme in senso sfavorevole al contribuente, senza fondamento testuale né giurisprudenziale.

È auspicabile che questa prassi venga finalmente ricondotta entro i confini della legalità, garantendo che l’imposta colpisca solo ciò che effettivamente è previsto dalla legge, e non ciò che l’Ufficio presume o deduce forzatamente.

 
 
 

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