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L'AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA SOTTOPAGA IL LAVORO CARCERARIO

Aggiornamento: 13 apr

L'Amministrazione penitenziaria condannata dal Tribunale di Roma per una vicenda accaduta ad Ancona

04 aprile 2024


L’ordinamento penitenziario è stato recentemente riformato e tale intervento legislativo ha interessato anche il lavoro carcerario. Le modifiche, operate nel Capo II dal D.lgs. 124/2018, in attuazione della legge 103/2017, sono rilevanti e sostanziali e riguardano tutti gli aspetti del lavoro in carcere.

All’articolo 2 innanzitutto si enuncia che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale.

Viene inoltre fissato il principio per cui il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo -dunque non è obbligatorio- ed è remunerato; l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale; infine che la remunerazione (non più “mercede”) è quella prevista dagli ordinari contratti collettivi ed accordi sindacali sebbene ridotta di un terzo.

Oltre al “lavoro all’esterno”, che costituisce una forma di beneficio previsto dall’art. 21 dell’Ordinamento penitenziario, il trattamento carcerario prevede il lavoro intramurario. Esso è un lavoro quasi sempre domestico, posto in essere alle dipendenze dell’amministrazione e consistente nello svolgimento di attività necessarie alla gestione materiale degli istituti: barberia, cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, sopravvitto, assistenza alla persona per i detenuti bisognosi di cure e così via. Ci sono poi le mansioni classiche che appartengono alla nota MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati): idraulici, imbianchini, muratori. Mansioni, quest’ultime che in sostanza servono a conservare l’equilibrio nella vita del carcere ed a manutenerne le sue strutture.

Il lavoro intramurario è molto appetibile dai detenuti, che riescono così ad incamerare denaro per rendersi la vita più agevole durante la detenzione, destinare qualche somma ai familiari o mettere da parte piccoli risparmi da utilizzare dopo il fine pena; esso si colloca nell’ambito delle risorse trattamentali al fine di responsabilizzare il detenuto e contribuire alla sua risocializzazione, ciò che costituisce la finalità della pena.

Quindi, il lavoro penitenziario, lungi dall'avere un carattere afflittivo, deve essere il più possibile equiparato al lavoro comune, anche in ossequio all'articolo 1 della Costituzione.

Per questo motivo la legge correda il più possibile il lavoro penitenziario, in specie quello intramurario, di diritti al precipuo scopo di affermare la dignità della persona e del lavoro quale titolo di partecipazione all’organizzazione economica e sociale della collettività generale a cui il detenuto appartiene, diritto non scalfito dallo stato di detenzione la cui finalità non è quella di negargli di essere individuo con i bisogni destinati ad essere soddisfatti con il lavoro e con le tutele costituzionalmente garantite che al lavoro accedono. Allora, tra gli elementi rilevanti affinché il lavoro risulti dignitoso, emerge in primis la giusta retribuzione delle prestazioni effettuate. Tuttavia sembrerebbe che l'Amministrazione penitenziaria sia poco incline al rispetto delle regole.


Il caso

Nel carcere di Ancona-Montacuto ad un detenuto disabile al 100% impossibilitato a deambulare e ad attendere ai bisogni della vita quotidiana veniva assegnato un altro detenuto quale assistente alla persona al fine di fornire ausilio al detenuto disabile per alzarsi e coricarsi dal letto, per lavarsi, per cucinare e consumare i pasti e più in generale per fornirgli aiuto fisico laddove egli ne avesse avuto necessità.

Tale attività, considerata lavoro a tutti gli effetti e svolta per ben 16 mesi tra il 2021 ed il 2022 veniva retribuita dall'Amministrazione penitenziaria pari mediamente a 3 ore di lavoro al giorno ancorché il servizio si protraesse per tutto il giorno e, sovente, anche la notte.

Nonostante le rimostranze in relazione all'ingiusto trattamento retributivo, l'Amministrazione penitenziaria dorica, imperterrita, faceva orecchie da mercante.

Spazientito, il detenuto-lavoratore in prossimità del fine pena si rivolgeva al proprio legale, chi vi scrive, al fine di agire giudizialmente per vedersi riconosciuta la retribuzione per le ore lavorate e non pagate.

Con una sentenza coraggiosa, come pure ne sono intervenute altre negli ultimi tempi da parte dei tribunali del lavoro nazionali, il Giudice del Lavoro Tribunale di Roma (competente per le cause di lavoro riguardanti l'Amministrazione penitenziaria), dottoressa Maria De Renzis, con Sentenza n. 3573/2024 del 22 marzo scorso, ha contribuito a porre una cesura a quello che eufemisticamente può definirsi un malcostume per non parlare di illegalità bella e buona e, senza mezzi termini, condannava l'Amministrazione penitenziaria e per essa il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di € 12.636,00 ad integrazione della retribuzione per le ore effettivamente lavorate e non pagate oltre alle ferie maturate ed agli interessi nonché al pagamento delle spese di lite pari ad € 3.223,00.

A tacere che questa ultima spesa grida vendetta ed andrebbe denunciata alla Corte dei Conti quale danno erariale nei confronti di chi si è reso responsabile; ma questo è un altro discorso.

Motiva il giudicante che "va posto in rilievo che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ma va remunerato secondo quanto previsto dalla legge n. 354 del 1975, contenente “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” (nello specifico si vedano gli articoli 20 e 22). Va, pertanto, riconosciuto il diritto del ricorrente al pagamento delle differenze retributive per le ore effettivamente lavorate".

Ora confidiamo tutti in un maggior rispetto delle regole da parte dell’Amministrazione penitenziaria in ossequio alle regole che lo Stato stesso si è dato.

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